Un
Paese senza Occidente
di Ezio Mauro
Un’investitura ottenuta l’altro
ieri dal vicepresidente Pence e dal Segretario di Stato Pompeo, in quella che a
prima vista potrebbe sembrare una delle tante visite ad limina
compiute nei decenni a Washington dagli aspiranti premier in Italia.
Dopo un anno di governo in cui il Paese ha galleggiato confusamente dentro
una geografia immaginaria, trasformando il Mediterraneo in un mare ostile
veicolo d’invasione, rompendo con i partner tradizionalmente più vicini,
polemizzando con la Francia di Macron, attaccando la Germania della Merkel,
iscrivendosi come junior partner al gruppo di Visegrad, è sicuramente
importante che il vicepresidente del Consiglio – nel momento della sua massima
forza – abbia riscoperto il rapporto con Washington, registrando il baricentro
della nostra politica estera.
Ma in realtà la vera identità con cui Salvini è arrivato in America è
quella di uomo nuovo di una nuova destra italiana, che fa piazza pulita non
solo delle ragnatele democristiane appese al soffitto della Prima Repubblica,
ma anche della stagione berlusconiana, con la sua interpretazione cesarista e
privatistica di una destra che pure il Cavaliere era stato capace non soltanto
di raccogliere e impersonare, ma di evocare, suscitandola con una mutazione
alchemica del moderatismo italiano.
Quei mondi sono finiti. E Salvini è andato a Washington come ambasciatore
del nuovo mondo, anzi come leader in pectore
dell’ultradestra europea. Che non avendo ricevuto dal voto europeo quel
consenso su cui puntava per rovesciare gli equilibri della Ue, cerca ora un
sostegno esterno chiedendo alla Casa Bianca una copertura imperiale e una
licenza continentale del trumpismo, da spendere a casa nostra col marchio d’origine
controllata: dal taglio delle tasse al blocco dell’immigrazione, fino
all’ultimo esperimento che filtra i migranti da far entrare in base al talento
professionale e alle qualifiche tecniche, discriminando definitivamente i più
sfortunati tra i disperati. In cambio, da oggi Salvini si mette a disposizione
di Trump (trascinando con sé l’Italia in questa missione contronatura per un
Paese fondatore dell’Unione) come grimaldello per far saltare le porte di
Bruxelles e Strasburgo, scassinando la Ue, nella speranza di svuotarla
rendendola inutile, o almeno di condizionarla dall’interno fino a paralizzarla.
L’Italia, purtroppo, come piede di porco per manomettere la costruzione
europea, su mandato tacito della Casa Bianca. Anche se l’incontro di lunedì ha certificato
che non c’è bisogno di nessun mandato. I nemici sono comuni, gli obiettivi
congiunti, la strategia è la stessa.
Dunque guerra allo «strapotere» (come l’ha chiamato in America Salvini)
franco-tedesco, pieno appoggio alla Brexit, anzi pieno sostegno all’uscita hard
promessa da Boris Johnson, attacco concordato e condiviso alle Nazioni
Unite con minaccia di tagliare i fondi per le iniziative umanitarie.
Tra i bersagli delle sopravvivenze occidentali manca solo la Nato, ma
arriverà. Intanto c’è la Bce, con Mario Draghi criticato ieri direttamente da
Trump (dopo gli attacchi del passato di Salvini) perché il suo annuncio di
possibili misure di sostegno a un’economia che non decolla incide sul cambio e
dunque «rende ingiustamente più facile la competizione dell’Europa con gli
Stati Uniti». In casi come questo, dove sta il governo dopo le strette di mano
americane di Salvini? Con Draghi che sostenendo l’economia europea aiuta
l’Italia, o con Trump che vuole fermare l’aiuto della Bce alle esportazioni, danneggiando
il nostro Paese? Com’è successo spesso, la foto-opportunity davanti alla Casa
Bianca illude i leader italiani in pellegrinaggio di essere i migliori amici
dell’amministrazione americana, e Salvini si è spinto addirittura a un
rovesciamento copernicano, sostenendo che l’Italia è «un punto di riferimento»
per gli Stati Uniti davanti alla fragilità europea, il Paese a cui
l’amministrazione Usa «si sente più vicina» in una comunanza «valoriale»,
«l’alternativa» al tandem che ha guidato fin qui l’Europa, da Parigi e da
Berlino. Come si può vedere, dunque, siamo davanti a un’intesa ideologica ben
più che strategica. È il sovranismo che si cerca, si riconosce e si raccorda
tra le due sponde dell’Atlantico, destrutturando le alleanze tradizionali,
mutilando le organizzazioni internazionali, minando quelle costruzioni
sovrastatali politiche e istituzionali con cui tre generazioni nel dopoguerra
hanno cercato di realizzare un sistema capace di garantire insieme la pace, la
sicurezza e i diritti: per tornare al semplice rapporto di forza degli Stati
nazionali, liberi di cercare qua e là la tutela dei loro interessi, senza
un’idea, un’ambizione e una responsabilità dell’ordine globale dell’Occidente.
In fondo, non è un caso se proprio questa parola è mancata nel vertice di
Washington, perché è venuto meno il principio occidentale, sia per l’Italia sia
per l’America, si è dissolto il concetto, che pure fa parte della nostra
identità e dei nostri valori. Siamo diventati un Paese a-occidentale,
condizione sterile perfetta per neutralizzare o depotenziare i valori
liberal-democratici che sostanziano la democrazia in questa parte del mondo.
Tanto che ci si può inchinare a Washington mentre si flirta con Mosca. Trump in
questo è davvero il partner perfetto per Salvini, che si porta in tasca i
Cinque Stelle, appagati dal dividendo marginale della loro predicazione
gregaria anti-sistema. Un partner che suggerisce all’Italia un rapporto con
l’America saltando per la prima volta insieme l’Europa e l’Occidente. Prima o
poi si proverà a farci uscire dall’Europa. Per il momento accontentiamoci di
essere fuori dall’Occidente, senza un dibattito parlamentare, senza una
reazione nel Paese, senza una rotta. Senza che l’opposizione lo sappia.
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