martedì 11 settembre 2018

Pubblicità travagliata


martedì 11/09/2018
La Santa Inserzione

di Marco Travaglio

Nel 2010 l’Enel comprò alcune pagine del Fatto, come pure degli altri giornali, per promuovere la quotazione di Green Power. Noi illustrammo i possibili rischi di quel prodotto finanziario. L’articolo non piacque all’addetto stampa di Enel, che inviò al nostro concessionario di pubblicità una spudorata mail annunciando la fine delle inserzioni sul nostro giornale. Evidentemente gli altri l’avevano abituato a vendere a Enel, in cambio di qualche pagina di pubblicità, anche tutte le altre: quelle teoricamente riservate all’informazione. Noi non siamo usi a questi andazzi: infatti prendemmo l’sms e lo sbattemmo in prima pagina. Perché tutti sapessero con chi avevano a che fare. Quel gran genio lasciò poi l’Enel per approdare alle Autostrade dei Benetton. Dove continuò a foraggiare i giornali in cambio di soffietti e silenzi, addirittura a sponsorizzare la festa di Repubblica e iniziative di altre grandi testate, che infatti dopo il crollo del Ponte Morandi impiegarono parecchi giorni prima di nominare, obtorto collo, i Benetton. La stessa cosa ci riaccadde nel 2017 con un’altra partecipata di Stato, l’Eni, che cancellò da un giorno all’altro 20 mila euro di pubblicità al Fatto subito dopo i nostri articoli sull’inchiesta che la vedeva coinvolta per corruzione internazionale in Nigeria.

Queste esperienze hanno confermato in noi le poche certezze che abbiamo sempre avuto sull’informazione all’italiana: la stessa che ci aveva indotti a mettere a repentaglio le nostre carriere e i nostri portafogli per fondare un giornale tutto nostro e senza un euro di denaro pubblico, cioè libero. 1) Le sei reti tv più diffuse, con relativi tg, sono tutte in mano ai partiti: le tre della Rai al Pd di Renzi, le tre di Mediaset a B. 2) I quotidiani – salvo un paio, tra cui il nostro – sono in mano a gruppi imprenditoriali che si occupano marginalmente di editoria e principalmente di tutt’altro (finanza, banche, assicurazioni, costruzioni, automobili, cliniche, appalti pubblici, politica), in pieno conflitto d’interessi, anche per i rispettivi agganci con i partiti di riferimento. 3) Il mercato pubblicitario è tutt’altro che libero, perché non obbedisce alla regola aurea della diffusione, ma a quella delle marchette: Mediaset ha il 55-60% di spot contro uno share medio del 30-35%; quanto ai giornali e ai siti, gl’inserzionisti (anche partecipate o concessionarie di Stato) premiano non le testate più lette, ma le meno critiche con loro e con i governi retrostanti. Negli ultimi 10 anni, secondo il Politecnico di Milano, la quota dei giornali nel mercato pubblicitario sui media è passata dal 31 al 13% e quella del web dal 10 al 34.

E gli investimenti complessivi sono scesi da 9,2 a 7,9 miliardi. La gran parte dei giornali campa per metà di vendite e per metà di inserzioni. Ma non il Fatto di carta, che vive per oltre il 95% dei soldi dei lettori, non delle aziende. 4) A dopare vieppiù il mercato ci sono i finanziamenti statali alla stampa, prima più estesi e generalizzati, ora più mirati ma pur sempre scandalosi.
Sui punti 1 e 2, attendiamo con ansia che il governo rispetti il contratto e vari una legge contro i conflitti d’interessi e una che liberi la Rai dal controllo governativo-parlamentare. Sul punto 4, confidiamo che il sottosegretario Crimi dia seguito alla promessa di azzerare i fondi pubblici ai giornali che ancora li incassano. Sul punto 3, il recente annuncio del ministro Di Maio sui limiti alla pubblicità delle società partecipate dallo Stato (Eni, Enel, Leonardo, Poste, Rai) è il minimo sindacale: i criteri di destinazione dei budget pubblicitari devono essere trasparenti e uguali per tutti, altrimenti si entra nella corruzione e negli scambi di favori. Di Maio sbaglia a sostituirsi al ministro dell’Economia e a limitare l’annuncio alla carta stampata: il grosso degli investimenti promozionali va alle tv e al web (la sede più adatta per la pubblicità di prodotto – sconti, nuove tariffe, nuovi servizi – perché il potenziale cliente può passare dall’inserzione all’acquisto con un clic; sui giornali è rimasta la pubblicità “istituzionale”, che presenta il nuovo logo, ricorda l’esistenza di una certa azienda o presenta nuovi testimonial).

Se poi un’azienda è monopolista, come gli acquedotti municipali o le Autostrade, non c’è motivo di concorrenza che giustifichi i suoi spot, inserzioni e sponsorizzazioni di qua o di là (se non quello inconfessabile di comprarsi la buona stampa coi soldi dei cittadini); se invece ha concorrenti privati e deve comunicare un nuovo servizio, è tenuta a farlo nella massima imparzialità per non turbare vieppiù il mercato editoriale. L’ha spiegato Gad Lerner, ex firma di Repubblica, al Fatto dopo la tragedia di Genova: “L’eccesso di zelo con cui si è protetta la famiglia Benetton – e cito anche lo spirito acritico con cui era stata valutata l’esperienza di Sergio Marchionne – ha confermato un riflesso automatico dei media a difesa dei grandi imprenditori, che poi spesso sono stati (o sono) nei gruppi editoriali”. E l’ha ribadito a La Verità: “I grandi giornali si sono dimostrati reticenti perché, in tempi di penuria di pubblicità, sono stati condizionati dagl’investimenti degli azionisti di Autostrade… Altra prova che, per molti anni, direttori di testate e protagonisti dell’informazione sono stati confidenti di grandi capitalisti e allo stesso tempo consiglieri dei dirigenti della sinistra”.

Perciò leggiamo con grande sorpresa l’editoriale di Ezio Mauro su Repubblica, che accusa Di Maio di voler sottomettere la stampa più sottomessa d’Europa con “l’ordine alle partecipate dello Stato di non fare più pubblicità sui giornali”, con una “ritorsione per quelle poche fonti di informazione che le forze di governo non controllano direttamente o indirettamente”, dopo che “la Rai si è allineata”, anzi è stata “addomesticata” e “gli imprenditori comprati con un semi-condono” (vuoi mettere invece Renzi che anticipava a De Benedetti il decreto Banche popolari, facendogli guadagnare 600 mila euro in Borsa senza muovere un dito).

Anzitutto siamo curiosi di sapere quali media “controllano direttamente o indirettamente” i giallo-verdi, visto che hanno contro il 95% della stampa e non posseggono neppure l’1% di un giornale o di una tv (a parte il Blog delle Stelle e la Prova del cuoco); che gli attuali direttori di rete e di tg della Rai li ha nominati Renzi e quelli di Mediaset li ha scelti B.; che del “semi-condono” non c’è traccia normativa; e che gli imprenditori sono talmente comprati che minacciano di scendere in piazza contro il governo, furibondi per il divieto di spot al gioco d’azzardo, il dl Dignità, il Daspo a vita per i condannati, la revisione delle concessioni ad Autostrade &C. e i limiti alle aperture domenicali per la grande distribuzione.

Lo stupore aumenta quando Mauro scrive che l’ordine di Di Maio “non cambierà nulla per i giornali”, però ci precipiterà in un plumbeo “mondo senza giornali, dominato dalle prediche impartite ai seguaci dal pulpito dei social”. Ora, se per i giornali vendere o non vendere pagine alle società pubbliche non cambia nulla, in che senso Di Maio vuole “neutralizzare i giornali, convinto che tutto si compri e si venda”? Se Repubblica continuerà a tenere le sue feste anche senza la sponsorizzazione di Autostrade-Benetton, e anche senza la presenza di Monica Mondardini nel Cda di Atlantia-Benetton e alla vicepresidenza del gruppo Repubblica- Espresso-Stampa-Secolo XIX, buon per lei. Semmai, a protestare contro Di Maio, dovrebbero essere i manager e i direttori della comunicazione delle partecipate, allarmati dalla rinuncia forzata a un’importante leva di marketing. Ma Mauro che c’entra? É un giornalista, che per vent’anni ha diretto Repubblica, celebre per meritorie battaglie contro i conflitti di interessi (degli altri, tipo B., un po’ meno contro quelli di De Benedetti). Anziché sostituirsi agli uffici marketing, un giornalista che teme ritorsioni dal governo dovrebbe chiedere ai lettori di acquistare più spesso il giornale, per trovare nel pubblico – cioè sul libero mercato – le risorse finanziarie che verrebbero meno. Invece Repubblica, curiosamente, tra i lettori e gl’inserzionisti di Stato, sembra preferire i secondi.

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