martedì 24 luglio 2018

Un racconto per sperare


QUEL MIRACOLO SUL TRENO

Matteo Bussola per Repubblica

Ero su un treno regionale, fermo a una stazione. Un ragazzo disabile in carrozzina, il busto piegato in avanti da un’evidente malformazione, è salito aiutato da tre persone. Lo spazio riservato ai portatori di handicap era occupato da due ingombranti valigie, il controllore ha chiesto a voce alta: «Di chi sono questi bagagli?!». Un uomo si è alzato per spostarli, lamentandosi del fatto che nel vano apposito non ci stessero, non sapeva dove metterli. Il ragazzo, mentre la sua carrozzina veniva legata con le cinghie, non ha detto niente, negli occhi la stanchezza di chi è abituato a reazioni simili. Tornando al suo posto l’uomo si è lasciato sfuggire una frase, a bassa voce: «Perché questi non se ne stanno a casa invece di andare in giro?». Lo abbiamo sentito in due, io e una signora anziana seduta vicino a me. Stavo per reagire duramente quando lei mi ha anticipato, si è alzata, si è piazzata davanti all’uomo e gli ha detto: « Si dovrebbe vergognare, perché non se ne sta a casa lei invece di andare in giro e costringerci a sentire le sue sciocchezze!».
L’uomo ha assunto d’un tratto l’espressione di un bambino sgridato dalla madre. « Ha ragione » , ha detto. «Mi scusi, scusatemi tutti, sono stanchissimo e ho proprio esagerato». Poi è andato dal ragazzo: «Scusami davvero, sono un imbecille». L’altro gli ha sorriso: «Tranquillo, da quello se vuoi si può guarire». Si sono presentati e hanno cominciato a parlare. Il ragazzo si chiama C., è un ingegnere informatico. L’uomo si chiama S., è un metalmeccanico pendolare. Abitano a neanche dieci chilometri e non si erano mai incontrati. Quel giorno invece si sono visti.
Questa situazione sarebbe potuta finire in tanti modi diversi, invece ho assistito a questo piccolo miracolo che ha avvicinato due esseri umani: un calcio in culo al momento giusto — da chi si è assunto la responsabilità di darlo — , la volontà di chiedere scusa, un sorriso ricambiato.
Ho raccontato la vicenda sulla mia pagina Facebook. La cosa che mi ha sorpreso, fra i vari commenti, sono state le reazioni di chi ha scritto di non credere nemmeno a una parola, che è evidentemente una storia inventata dai soliti "buonisti". Sarebbe fin troppo semplice rispondere a queste persone nella maniera più ovvia: io c’ero, voi no. Io ero su quel treno, ho guardato negli occhi quel ragazzo, ascoltato le parole di quell’anziana signora e di quell’uomo. Le scuse inattese, che hanno lasciato spazio alla speranza che questo mondo possa essere un posto migliore rispetto a quanto ci viene sempre più spesso fatto credere.
Ma il punto è che, ormai, nemmeno le testimonianze dirette possono servire a scalfire una narrazione del reale in cui è il "cattivismo" ad avere vinto. Se un episodio riportato non coincide con la propria visione del mondo, dev’essere per forza falso. Invito perciò gli increduli, se lo desiderano, a prendere la vicenda come un semplice racconto. Scopriranno che non cambierà niente, che il loro fastidio nel "non riconoscersi" nei comportamenti descritti resterà inalterato, perché questa per loro non è la realtà.

Ma in ogni narrazione non è la realtà di una storia che conta, ma se mentre la leggiamo siamo in grado di riconoscere la verità che contiene. La verità, in questo caso, è che le persone possono cambiare il mondo quando riescono davvero a vedersi, oltre il muro del pregiudizio e della discriminazione. E per fortuna, in questa vicenda, nessuna incredulità potrà mai scalfire il coraggio di C. e S., il non arrendersi alla propria condizione del primo e la capacità di chiedere scusa del secondo. Perché la differenza non la fa mai ciò che la vita ha scelto per noi, ma ciò che noi, ogni giorno, scegliamo per le nostre vite.

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