giovedì 05/07/2018
Camicie rosso-nere
di Marco Travaglio
Come direbbe il nostro guru preferito, Quelo, c’è grossa crisi nel Giornale Unico dell’Apocalisse. Un mese fa, le mejo penne del bigoncio ci avevano raccontato che stava nascendo un “governo di destra” con “programma di destra”, “atteggiamenti di destra”, “natura dichiaratamente di destra”, “laboratorio pratico della nuova destra sovranista e antieuropea” (Claudio Tito, Repubblica), “un’ideologia sottile di destra” (Massimiliano Panarari, l’Espresso). “Un lepenismo corretto da assistenzialismo al Sud spacciato per facsimile di reddito di cittadinanza… una ‘destra realizzata’… La ‘destra reale’ europea”, cocktail mortale di “ribellismo, velleitarismo, ideologismo, dilettantismo”, in una parola “avventurismo” (Ezio Mauro, Repubblica). Punto, punto e virgola, due punti: massì, abbondiamo, abbondantis abbondandum. E i nuovi fasci mica si sarebbero accontentati di marciare in orbace, radunarsi in piazza Venezia sotto il balcone del Duce Conte, saltare nel cerchio di fuoco e invadere l’Etiopia, eh no. Le loro mire erano ben più ambiziose: “Sottomettere la Costituzione” (La Stampa), “l’uscita dall’euro o l’arrivo della troika… Un suicidio” (Aldo Cazzullo, Corriere), “tagliarci le pensioni”, “l’abolizione del governo”, “uccidere il Sud”, “piazzare ‘Rousseau’ nella Pa” (il Giornale), “far saltare l’Italia”, “la catastrofe” per i “consigli di Bisignani e Mentana” (Giuliano Ferrara, il Foglio), “radere al suolo la democrazia” (Piero Sansonetti, Il Dubbio). Cose così.
Ora il governo di Benito Conte e dei duumviri Galeazzo Di Maio e Romano Salvini partorisce il suo primo decreto che taglia le unghie al precariato e vieta gli spot delle bische. E, sorpresa! Lo elogiano il manifesto, Cgil, Cisl, LeU, Landini, Cofferati, Fassina e altre note camicie nere. Il che fa sospettare che sia un decreto, parlando con pardon, “di sinistra”. Che fare? Il Giornale Unico dell’Apocalisse si disunisce un pochino: l’ala berlusconian-confindustriale urla e strepita contro il ritorno dei comunisti travestiti da grillini, mentre quella confindustrial-pidina dice che le misure di sinistra che piacciono alla sinistra non sono di sinistra. Libero: “Di Maio piace ai compagni perché è un comunistello. Sindacati e vecchi arnesi rossi entusiasti del decreto dignità di Giggino, che invece terrorizza gli imprenditori”. Il Giornale: “Senza dignità. Mazzata all’economia”, “Salvini fermi i nuovi comunisti”, “Di Maio fa saltare 100 mila posti di lavoro. Rivolta degli artigiani”, “Sinistra sotto mentite spoglie”.
Il Foglio (rag. Cerasa): “Salvare le imprese dalla gogna populista. Mobilitarsi” (milioni di lettori del Foglio sono subito scesi in piazza al grido di “A Cera’, mo’ me lo segno”). Messaggero: “Colpo al mercato del lavoro, senza le contromisure”, “Lite sul decreto: contratti a rischio. Scommesse, Lega Calcio contro lo stop agli spot”, “Quel flirt M5S-Cigl”. Corriere della Sera: “Contratti e fisco, salgono le proteste”. La Stampa: “Lavoro, imprese all’attacco”. Repubblica, fu giornale della sinistra, fa storia a sé. Dice l’unica cosa che può dire per non contraddire i vaticinii sull’invasione degli ultrafasci grillini: “Il decreto dignità cambierà poco il mercato del lavoro” (resta da spiegare perché gli industriali e i biscazzieri strillino come ossessi). È tutta una “maschera” per “strizzare l’occhio alla sinistra”. Ma non quella vera, quella Doc, eh no: quella è una specialità della casa, ben custodita sotto chiave nella banca del seme di Largo Fochetti, anche se nelle urne nessuno l’ha notato. Questa a 5Stelle è una “sinistra qualunquista” che si alterna nel “gioco delle parti” con la “destra populista” (Claudio Tito). Cioè con la Lega, a cui peraltro Repubblica si affida speranzosa perché faccia a pezzi il decreto Dignità: “Lega all’attacco: ‘Pronti a cambi in Parlamento’”. E che il decreto non sia di sinistra lo dimostra un dettaglio decisivo, subito sgamato dall’acuto Tito: “Di Maio dimentica di dire che il suo testo non ripristina le garanzie sui licenziamenti fissate dall’articolo 18”. In effetti, siccome nessuno aveva mai annunciato il ripristino dell’art. 18 nel decreto Dignità, Di Maio non aveva precisato di non averlo ripristinato. Ma Tito se l’aspettava, dunque andava avvertito per tempo. Ora, già che c’è, Di Maio dovrebbe pure avvisarlo di non aver riaperto le case chiuse e di non aver reintrodotto il delitto d’onore. Sennò poi non si aspetti la clemenza di Tito, che è merce rara.
Quando Renzi l’articolo 18 lo abolì, diversamente da quando voleva farlo B., Repubblica scrisse che era cosa buona e giusta e moderna, come tutto ciò che faceva Renzi, mentre l’articolo 18 era cattivo e ingiusto e reazionario. Ora che, in ben 30 giorni di governo, Di Maio non l’ha ancora ripristinato, l’articolo 18 torna a essere buono e giusto e moderno, per un motivo semplice e anche coerente: Di Maio è cattivo e ingiusto e reazionario a prescindere, anche quando indossa la “maschera” della sinistra (quella “qualunquista”). Ma alla fine il Giornale Unico dell’Apocalisse ritrova la sua rocciosa coesione esaltando, compatto come falange macedone, il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Il quale è sempre dipinto come un saggio d’altri tempi, una personcina ammodo, prudente, competente, attenta ai conti e all’Europa. Come se non fosse l’elemento più importante del governo dopo Conte, Di Maio e Salvini. E quasi che fosse il capo dell’opposizione e non un ministro scelto da Salvini per le sue critiche all’euro, suggerito dal putribondo Savona dopo il gran rifiuto di Mattarella. Qualcuno, pensando di fargli un gran complimento, s’è addirittura spinto ad accostarlo a quel genio di Padoan. Roba da querela.
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