martedì 26 giugno 2018

Vomitevole Made in Italy


Leggete questo articolo e quando ci abbacinerà una lussuosa vetrina, avremo l’occasione per rigurcitarci contro!

lunedì 25/06/2018
MADE IN ITALY
Schiavi della moda: il business del lusso
IL PRINCIPIO CHE FA GIRAR LA GIOSTRA DEL CONFEZIONAMENTO DEGLI ABITI GRANDI-FIRME NON SI BASA SULLA QUALITÀ, MA SUL RISPARMIO A OGNI COSTO CHE SPINGE ALLA DELOCALIZZAZIONE

Lungo il confine tra Moldova e Ucraina, al di là del fiume Dnestr, c’è una striscia di terra chiamata Transnistria, abitata da poco più di mezzo milione di persone e dotata di un governo indipendente. Ha una moneta, una costituzione, un esercito e un inno nazionale ma non è ufficialmente riconosciuta dalle Nazioni Unite. In pratica, non è considerata uno Stato. Dagli inizi del Duemila, sotto la guida dell’allora presidente Igor Smirnov, ex colonnello del Kgb, dopo aver commerciato in ogni sorta di illecito (droga, armi, auto rubate di grossa cilindrata, materiali tossici, veleni), la Transnistria ha sviluppato velocemente l’industria manifatturiera. Ma una grossa fetta di interesse è stata orientata verso alcune prestigiosissime firme del Made in Italy che hanno iniziato a delocalizzare proprio lì la loro produzione di abbigliamento.

È dalla Transnistria che inizia il viaggio-report di Giuseppe Iorio (responsabile-tecnico di produzione con alle spalle 30 anni di esperienza nel mondo dell’industria tessile) tra l’Europa dell’Est e l’Asia raccontato nel libro Made in Italy? Il lato oscuro della moda (Castelvecchi). Da una fabbrica dell’Europa dell’Est a un’altra dell’Asia, Iorio mostra un’amara verità: la schiavitù esiste ancora. Sono i lavoratori della moda, un settore che confeziona lussuosi capi di abbigliamento per le vetrine delle nostre eleganti boutique, costretti dalla miseria a lavorare senza diritti, senza tutele, solo perché la loro forza lavoro costa meno di quella italiana. C’è la storia di Irina, che seleziona a mano le piume per le giacche; quella di Daria, costretta a prostituirsi per mangiare dopo aver subito un infortunio alla mano mentre era alla macchina da cucire. Ma anche i “buoni” – le piccole realtà dei laboratori rimasti in Italia – e i “cattivi”, fra cui Moncler, Prada, Armani, Zegna, Dolce & Gabbana, Tod’s, Fay e altri big della moda che, come permesso dalla legge, delocalizzano all’estero distruggendo l’artigianalità italiana.

I numeri lo dimostrano: il comparto della moda-lusso in Italia fattura circa 90 miliardi di euro all’anno. I primi dieci gruppi (Moncler, Tod’s, Armani, Prada, Miroglio, Max Mara, Geox, Zegna, Dolce & Gabbana, Gucci) – che sviluppano un fatturato di 20 miliardi di euro – potrebbero dare lavoro a più di 200mila persone, ma si stima che occupino poco meno di 15mila dipendenti in tutto. Così, alla domanda “quando un prodotto può dirsi Made in Italy”, è evidente che la risposta non sia affatto immediata. Questo “marchio” di eccellenza negli anni è stato oggetto di un ricco e acceso dibattito, mentre si sono susseguiti nel tempo numerosi provvedimenti normativi, da un lato volti a tutelare il cliente che desidera conoscere l’effettiva provenienza della merce che acquista, dall’altro lato per soddisfare la richiesta dei produttori che possono così tutelare le proprie collezioni dai falsi della concorrenza straniera. Poi, per la suggestione del marketing quando si ha a che fare con i grandi marchi italiani del lusso, si è spinti a dare per scontato che dal cartamodello, al confezionamento alle cuciture finali siano tutte eseguite in Italia. Ma non è così. Troppi gli imprenditori che – chi quasi tutto, chi poco – vanno a produrre dove fanno prezzi stracciati per poi farsi promotori del Made in Italy per la loro indiscussa genialità “nonostante abbiano fatto terra bruciata della nostra abilità taglia e cuci che ci ha reso eccellenti nel mondo”, come scrive Iorio in Made in Italy? Il lato oscuro della moda di cui riportiamo alcuni stralci.

 

Sonoma-Sodoma: lo schiavista di Bacau

“La Sonoma, che produce capi di lusso per vari marchi del Made in Italy, ha una sede in provincia di Bergamo (il cervello) e vari stabilimenti in Romania, prevalentemente a Bacau (le braccia). Il titolare è un italiano. Perché continua ad accettare lavoro da parte delle principali griffe del sistema moda Italia a prezzi stracciati? Perché non dice a quelli che vengono qui a fare le produzioni che per poter assemblare una giacca che loro vendono a mille euro occorrono perlomeno 50 euro di manodopera e non 15 o 20 che è quanto i loro super stipendiati direttori delle produzioni intendono pagare? Perché continua a firmare contratti per commesse sottocosto? E quando non riesce a realizzarle nemmeno in Romania visto che perfino a Bacau un operaio è troppo caro, allora le porta a confezionare con il beneplacito di chi gli commissiona il lavoro (Moncler, Dainese, Blauer, eccetera) addirittura in Madagascar, nella fabbrica di Emile (che io conosco bene) ad Antananarivo, la terza città più povera del mondo, dove un operaia costa 30 dollari al mese. L’ho visto aggirarsi in mezzo alle catene di produzione e gettare caramelle alle operaie cingalesi che stavano sedute a lavorare a macchina. Ho detto ‘gettare’ non ‘offrire’. Ma che diamine ha questo qui al posto dell’anima?”.

 

Le carceri di Sopot: nel lager

“Sono diretto a Sopot, una cittadina a 120 chilometri da Sofia. Ci sono stabilimenti tessili, industrie chimiche, fonderie, insomma, l’Est Europa produce. Ma sembra che negli ultimi dieci anni i ricchi siano sempre più ricchi e i poveri quanto basta per accettare le condizioni precarie e indecenti del lavoro che viene loro offerto. L’auto si arresta davanti a un enorme cancello arrugginito. Me lo avevano descritto come “un postaccio”, un carcere. Parole che avevo interpretato come “vedrai che posto desolato”. Invece, la fabbrica dove mi trovo 25 anni prima era proprio una prigione, un carcere bulgaro-russo. Fatta eccezione per gli uffici amministrativi che stanno al piano terra, è tutto sporco, tenuto male. A metà di un corridoio mi colpisce come una mazzata un fetore tremendo. Stiamo passando davanti ai servizi igienici. Ho fatto tanti viaggi sono stato in tanti posti, ho conosciuto diversi tipi di latrine ma fra tutte quelle in cui ho avuto il privilegio di entrare queste qua sono decisamente le peggiori. Fanno veramente schifo. Si tratta di latrine turche sozze e puzzolenti, alcune senza porta e con un pavimento appiccicoso che non vede un detergente dai tempi dello zar Nicola II. In queste condizioni, ci si può ammalare. E lì si sono producono tre marchi del Made in Italy”.

 

Delocalizziamoci: il vero prezzo che si paga

“Si parla di capacità e di intraprendenza dei nostri imprenditori e la filosofia dello sfruttamento viene mascherata con frasi a effetto. Tra un flash e l’altro, il solito abbronzatissimo creativo, reduce dall’ultimo lifting, dice: “Abbiamo saputo cogliere le grandi sfide e le innumerevoli opportunità che il nuovo mercato globale vuole offrire”. È immorale, inumano e alla lunga controproducente, soprattutto per noi italiani che di moda direttamente e indirettamente ci campiamo più di quanto non si possa credere dal momento che la filiera industriale coinvolge innumerevoli attività e non solo quelle direttamente legate al tessile. Non si può pensare di sfruttare la povera gente, qualunque sia il bene da produrre e maggiormente se si tratta di un bene di lusso che poi è pagato tantissimo da chi lo compera. Ma se proprio non si vuole guardare alle ragioni morali che imporrebbero un cambiamento di rotta, bene, c’è da dire che alla lunga questo tipo di comportamento non paga nemmeno dal punto di vista strettamente economico, di convenienza. Prima o poi questo genere di rapporto è destinato a cambiare e dipenderà da noi, dalle nostre politiche commerciali se in maniera positiva. Per ora, stiamo assistendo a dei segnali che lasciano prevedere un mutamento fortemente negativo per le nostre aziende”.

 

Turnu Magurtele: l’avamposto

“Dal nome t’immagini un posto in Africa. Invece siamo in Romania, ai confini con la Bulgaria, a due o tre chilometri dal Danubio. Qui non c’è proprio nulla, a parte la fabbrica che occupa circa trecento persone. Bastano un paio di mesi qui e la depressione è assicurata. Infatti, gli italiani, amministratori e tecnici, non ci pensano nemmeno a restare oltre l’orario di lavoro e la sera preferiscono farsi cinquanta chilometri per andare ad Alexandria, che è l’ultima città degna di questo nome lungo la strada che dalla capitale va verso il Danubio. In zone più centrali della Romania non conviene più produrre. Lì un operaio ha una possibilità di scelta, anche se minima, fra uno stabilimento tessile e un’altra industria. Qui no. Turnu Magurele è così fuori dal mondo che la gente che ci vive è costretta ad accettare le condizioni di lavoro che le vengono imposte. È una cosiddetta “sacca di basso costo” popolata da persone che non hanno possibilità né di movimento né di confronto. Altro che portare lavoro! Altro che esportare tecnologia! E così, nella fabbrica di quest’altro bel posto ai confini del nulla ci trovo una produzione che da tempo mi chiedevo dove mai potesse essere stata fatta e chi la facesse. Qui si realizzano gli abiti di Marina Rinaldi (gruppo Max Mara), per la precisione le taglie comode, dove far cucire un vestito costa 7 euro. Ma neanche le taglie comode sfuggono al sacrosanto principio degli stilisti: costi bassissimi e stangata al cliente.

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