venerdì 15/06/2018
Operazione Gattopardo
di Marco Travaglio
L’indagine sul “sistema Parnasi”, che pareva limitata allo stadio della Roma e al mondo grillo-leghista, riguarda anche lo sbarco del palazzinaro capitolino a Milano. Luca Parnasi, ora in carcere, collegava le sue chance di costruire lo stadio del Milan ai suoi investimenti sulla politica: anche sul sindaco Pd di Milano Giuseppe Sala, che lo ringraziò (“io sono gratissimo a Luca… se non c’era Luca non facevo la corsa elettorale”) tramite il comune amico Roberto Mazzei, incontrato a Natale in vacanza in Oman. Che Parnasi finanziasse la destra (250 mila euro alla onlus leghista Più Voci), si sapeva; ora Sala, a domanda del Fatto, ammette che la moglie del costruttore finanziò pure lui, via Pd, con 50mila euro. Peccato che quell’intercettazione su Sala sia scomparsa dietro gli omissis nell’ordinanza del gip e nelle prime note dei Carabinieri fosse stata indicata come “incompresibile”. Sennò si sarebbe subito capito che il “manifesto programmatico” del sistema corruttivo, attribuito dai magistrati al caso dello stadio romanista, si riferiva in realtà alle parole di Parnasi sui soldi a Sala. Ieri Repubblica reclamava le solite dimissioni della sindaca Virginia Raggi per un fatto che non la vede protagonista né poteva conoscere (lo si è scoperto dalle intercettazioni): gli incarichi da 100 mila euro promessi da Parnasi al consulente M5S Luca Lanzalone. Dunque oggi, per coerenza, chiederà pure la testa di Sala per un fatto che lui conosceva: i 50 mila euro di Parnasi per la sua campagna elettorale e i suoi ringraziamenti tramite Mazzei, amico del costruttore (e di Bisignani). Noi pensiamo invece che, al momento, l’unico che doveva andarsene fosse Lanzalone, che ieri s’è dimesso da Acea su input di Di Maio.
Ma c’è una cosa che potrebbe fare in più chi, da Casaleggio a Di Maio, si dice “diverso” dagli altri: studiarsi attentamente le carte dell’indagine non dal punto di vista penale (che sarà valutato a dai giudici), ma politico, sociale e antropologico. Il quadro che emerge è un magnifico selfie di quel che accade in Italia quando cambia o rischia di cambiare il sistema con i suoi equilibri di potere. Ciò che è accaduto dopo il 4 marzo ha due soli precedenti in 72 anni di storia repubblicana. Quello dell’immediato dopoguerra, quando andarono al governo le forze politiche escluse dal ventennio fascista. E quello del 1992-‘94, quando crollò la Prima Repubblica sotto le macerie di Tangentopoli e l’istinto di sopravvivenza dell’Ancien Regime produsse subito un formidabile anticorpo al cambiamento: B. A bilanciarne il gattopardismo provvide una forza nuova e dirompente come la Lega di Bossi.
Che infatti dopo sette mesi lo buttò giù. Oggi il Gattopardo è la Lega di Salvini che, sotto le mentite spoglie del nuovo che avanza, ricicla tutto il vecchio che è avanzato (idee, persone, lobby, prassi), controbilanciato dall’elemento più nuovo che la politica italiana al momento conosca: i 5Stelle. Questi però non hanno né la solidità culturale, il savoir faire amministrativo e la classe dirigente adeguata per arginare il tracimante falso nuovismo leghista. E nemmeno per resistere ai tentativi di infiltrazione. Parnasi, Bisignani e quelli come loro sanno benissimo che i Di Maio e le Raggi sono inavvicinabili: hanno mille difetti, ma non la corruttibilità. E allora aggirano l’ostacolo e bussano alla porta dei Lanzalone, trovandola spalancata. Distinguere le verità dalle millanterie sarà compito dei magistrati. Ma leggere di riunioni in casa Parnasi fra Lanzalone e Giorgetti, leghista per tutte le stagioni, per “fare il governo” e di missioni di Lanzalone nei palazzi del potere per le nomine pubbliche dà l’idea della permeabilità del “nuovo” alle infiltrazioni del “vecchio”. Un movimento cresciuto troppo in fretta e chiamato troppo presto al governo con quadri improvvisati si affida agli “esterni”: tecnici, consulenti, boiardi, funzionari, avvocati presi a prestito dal privato, dall’università, dal Parastato, dalla Pubblica amministrazione, che magari sono fin troppo competenti, ma non necessariamente condividono i valori di chi li ha chiamati. E presto o tardi possono cedere a tentazioni di potere, di privilegio, di conflitto d’interessi o addirittura di corruzione. E allora può succedere di tutto: di azzeccare la scelta arruolando persone di valore (si spera che Conte lo sia) o di sbagliare clamorosamente portandosi il nemico in casa, come Marra, Lanzalone o Giordana (il braccio destro della Appendino dimessosi per una multa levata a un amico).
Troppi campanelli d’allarme per non porsi il problema strutturale di un Movimento nato sulla trasparenza, sull’onestà e sul civismo che potrebbe fare del bene all’Italia e invece rischia di perdere – e soprattutto di farci perdere – un occasione che potrebbe essere l’unica: la cronica mancanza di una classe dirigente autonoma, forte e preparata e responsabile, capace di attrarre le forze migliori della società. Col risultato di affidare la scelta di candidati, sindaci, assessori, ministri, sottosegretari e consulenti al caso, o al culo. Certo, quando poi la mela marcia salta fuori, ci si può consolare rinfacciando agli altri di essere peggio e di non cacciare nessuno nemmeno dopo la condanna definitiva. Ma, fermo restando che nessuno nasce dal nulla, tutti hanno una vita precedente e la fabbrica dei santi ha chiuso da un pezzo, una forza “diversa” dovrebbe darsi gli strumenti più adeguati per selezionare uomini e donne a prova di bomba. Altrimenti, di errore in errore, passerà fra la gente l’idea che sono tutti uguali, non si può cambiare niente e tanto vale riaffidarsi ai vecchi puzzoni. A noi, della sorte dei 5Stelle, importa poco o nulla: ma se anche stavolta le aspettative di cambiare venissero frustrate, nessun altro ci proverà mai più.
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