Per chi si fosse dimenticato qualcosa della più vergognosa storia italiana.
venerdì 08/06/2018
Perché non parli?
di Marco Travaglio
Vorrei tanto essere una mosca e posarmi su qualcosa di marron: il capino levigato e moquettato di B.. Per ascoltare in diretta i suoi commenti sul governo appena nato. E per capire come mai non parla in pubblico da settimane. Sulla carta – quella del contratto Salvimaio – Conte guida il governo col minor tasso di berlusconismo dalla notte dei tempi. Precisamente dal 16 ottobre 1984, quando i pretori di Torino, Pescara e Roma sequestrano gli impianti che consentono alle tre reti Fininvest di trasmettere illegalmente in “interconnessione”, cioè in differita simultanea in tutta Italia, con un effetto-diretta riservato per legge alla Rai. Il Cavaliere “auto-oscura” Canale5, Rete4 e Italia1 e fa la vittima: chiagne e fotte, raccontando che sono stati i giudici cattivi a spegnere le sue tv e aizzando il popolo dei Puffi, di Dallas e di Uccelli di rovo contro la magistratura comunista. Il 20 ottobre il premier Bettino Craxi, suo amico e socio in affari, interrompe la visita di stato a Londra da Margaret Thatcher, rientra precipitosamente in Italia e vara un decreto urgente ad personam: il primo “decreto Berlusconi”, che legalizza l’illegalità del compare Silvio e neutralizza le ordinanze dei giudici. Ma persino la Dc e financo il ministro delle Poste e Telecomunicazioni Antonio Gava ritengono il decreto incostituzionale, che infatti il Parlamento non converte in legge. Il 6 dicembre, prima dello scadere dei 60 giorni, Craxi impone il secondo “governo Berlusconi”, minacciando gli alleati di andare alle elezioni anticipate se non lo convertiranno. Così il 4 febbraio 1985 il decreto diventa legge dello Stato e consacra il monopolio berlusconiano sull’emittenza privata.
Subito dopo B. si sdebita con Bettino organizzando, con l’aiuto di Cesare Previti, una cordata di imprenditori per impedire al suo nemico Carlo De Benedetti di acquistare la Sme, la finanziaria alimentare dell’Iri. E dà la scalata alla Mondadori per bloccare l’ascesa dell’Ingegnere nel gruppo che controlla Repubblica, Espresso, Panorama, Epoca e una dozzina di giornali locali. Missione compiuta nel 1991 con la sentenza del giudice Vittorio Metta, comprato da Previti con soldi di B., che scippa la Mondadori a De Benedetti per consegnarla al Caimano. In quegli anni, con vari giudici romani a libro paga, B. non ha guai giudiziari. Il suo chiodo fisso non è dunque il ministero della Giustizia, ma quello delle Telecomunicazioni. Che da allora, dopo il tiepido Gava nel governo Craxi, sarà sempre un suo amico. Per altri trent’anni. Caduto Craxi nel 1987, si susseguono i governi Goria, De Mita e Andreotti.
Alle Poste e Tlc c’è sempre il repubblicano Oscar Mammì, chiamato a scrivere la prima legge italiana sul sistema radiotelevisivo dopo il lungo Far West. Anni dopo racconterà una visita di B. al ministero: “Non smise un attimo di scherzare e fare battute, cercando in ogni modo di accattivarsi la mia simpatia. Alla fine, con sguardo impassibile, gli dissi solo che avrei tenuto in debito conto le sue parole. Un commesso aveva appena aperto la porta per accompagnarlo all’uscita quando accadde l’incredibile. Berlusconi mi si inginocchiò davanti e, baciandomi la mano, mi disse: ‘La prego, ministro, non rovini me e le mie due famiglie!’”. Poco dopo, è il 1990, Mammì partorisce una legge su misura del Biscione. Che, invece di introdurre finalmente un principio antitrust degno di una democrazia occidentale, consacra il monopolio berlusconiano: B. può tenersi le sue tre reti (circa il 50% del panorama televisivo e dell’affollamento pubblicitario), con due foglie di fico: la rinuncia al Giornale di Montanelli (subito aggirata passandolo al fratello Paolo) e il tetto del 10% di azioni delle pay-tv Tele+1, Tele+2 e Tele+3 (subito aggirato con la finta vendita delle quote eccedenti a vari prestanome). Negli stessi mesi, B. versa al principale supporter della Mammì, cioè a Craxi, 21 miliardi di lire in Svizzera. Il piano frequenze lo segue il giovane braccio destro del ministro, Davide Giacalone, che poi otterrà una miracolosa consulenza” di 600 milioni di lire dalla Fininvest, sarà arrestato per corruzione in Tangentopoli e ne uscirà con una mezza assoluzione e una mezza prescrizione. Nel 1991-’93, con i governi Andreotti, Amato e Ciampi, il ministero delle Telecomunicazioni passa al Psdi, finanziato dalla Fininvest tramite Gianni Letta (reo confesso e prescritto per una mazzetta al segretario Antonio Cariglia), prima con Carlo Vizzini (futuro deputato di FI), poi con Maurizio Pagani. Nemmeno da loro B. ha nulla da temere. Poi nel 1994 va direttamente al governo e i suoi problemi – con Alfredo Biondi alla Giustizia e Pinuccio Tatarella alle Poste – paiono risolti. Ma nel novembre ’94 viene indagato da Mani Pulite per corruzione della Guardia di Finanza; e la Consulta dichiara incostituzionale la Mammì e stabilisce che la Fininvest deve scendere da tre reti a due: Rete4 dovrà passare sul satellite e liberare le relative frequenze a un’emittente concorrente. Pochi giorni dopo, cade il primo governo B. e ne nasce uno tecnico, presieduto da Lamberto Dini. B. grida al golpe e al ribaltone, poi Dini gli fa scegliere il ministro della Giustizia (Filippo Mancuso, giudice in pensione nemico giurato dei pool di Milano e Palermo) e delle Telecomunicazioni (Agostino Gambino, avvocato di B. e in passato pure di Sindona). Così alla fine Forza Italia si astiene. E la sentenza della Corte resta lettera morta. Nel ’96 arriva il governo Prodi e B. ricomincia a tremare. Uomo di poca fede: l’Ulivo si rimangia le promesse contro la corruzione e il conflitto d’interessi, lo invita in Bicamerale a riscrivere la Costituzione e gli piazza pure alla Giustizia il garantista Flick e alle Telecomunicazioni il re di tutti gli inciuci: Antonio Maccanico. Questi, anziché attuare la sentenza della Consulta, spedire Rete4 su satellite e girare le frequenze a Europa7 che ha vinto la concessione, concede alla tv abusiva una proroga sine die, confermata dall’apposito successore nei governi D’Alema e Amato: Totò Cardinale, proveniente dal centrodestra (Ccd), molto gradito a B.. Anche la Maccanico, però, nel 2002 viene bocciata dalla Consulta, che conferma lo spegnimento di Rete4 entro il 31-12-2003. Ma ormai B. è tornato al governo: Gasparri, ministro delle Comunicazioni, esegue gli ordini e vara il condono tombale per Rete4, prima per decreto e poi per legge ordinaria. Nel 2006 il secondo governo Prodi schiera in quel ministero chiave un altro amico di Confalonieri e di Mediaset: Paolo Gentiloni, che infatti continua a infischiarsene dei diritti di Europa7 e a tutelare quelli del Biscione. Così come, nel 2008, il viceministro delegato Paolo Romani, nel terzo e ultimo governo B. Molto graditi al partito Mediaset, con marchette varie e assortite, i viceministri dei governi Monti (Massimo Vari), Letta (Antonio Catricalà), Renzi e Gentiloni (Antonello Giacomelli). Ora, per la prima volta da quando ha smesso i pantaloni corti, B. si ritrova alla Giustizia un amico dei giudici anziché degli imputati: Alfonso Bonafede. E, quel che è peggio, allo Sviluppo economico (con annesse Telecomunicazioni) l’unico leader politico degli ultimi 20 anni che ha sempre rifiutato di incontrarlo e perfino di rispondergli al telefono: Luigi Di Maio, che proprio per questo ha dovuto rinunciare a diventare premier. L’ultima speranza per B. è che Salvini strappi le Tlc ai 5Stelle e le affidi a un sottosegretario finto-leghista che lui gli indicherà (o gli ha già indicato). Sarebbe l’ultima truffa di una lunga serie. Ma, se dovesse andargli buca, abbiamo come l’impressione che B. romperebbe il silenzio. E si metterebbe a strillare per un fatto inusitato quanto scandaloso: la liberazione dello Stato Italiano, dopo 44 anni di sequestro nella prigione di Arcore. Come diceva Umberto Bossi ai tempi d’oro: “Ma vi pare che uno che possiede 140 aziende possa fare gli interessi dei cittadini? Quando Berluskaz piange, fatevi una risata: vuol dire che va tutto bene, che non ha ancora trovato la combinazione della cassaforte”.
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