mercoledì 14/03/2018
L’autoreggente
di Marco Travaglio
Nessuno poteva ragionevolmente sperare che il Pd in Direzione trovasse una direzione, impresa improba tentata invano dai suoi 5 segretari in 10 anni (Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi). Ma c’era almeno da aspettarsi che il politburo pidino individuasse le ragioni dell’ennesima disfatta elettorale, dopo quelle – mai analizzate – delle Amministrative 2016, del referendum 2016 e delle Amministrative 2017. Invece nessuno s’è nemmeno posto la domanda, per paura di trovare una risposta e di doverne poi trarre le conseguenze: e cioè il ritiro a vita privata di tutto il gruppo dirigente, renziano e non. Meglio continuare a oscillare fra due tentazioni: quella demenziale di farla pagare agli italiani, così imparano a diventare improvvisamente “populisti”, a non capire le grandi riforme dell’ultimo quinquennio e a non apprezzare il boom economico che ne è seguito; e quella infantile di interrompere la partita appena iniziata e portar via il pallone, così se non giocano loro non gioca nessuno. Più illuminante del cosiddetto dibattito c’è solo la foto di gruppo con tutti i presunti e aspiranti leader che guardano nei rispettivi smartphone mentre parla l’inutile Martina, il Signor Nessuno scelto come segretario reggente da un non-partito pieno di non-idee e di non-prospettive (tutti, tranne Nicola Latorre, caduto comprensibilmente in letargo). Del resto, perché mai qualcuno dovrebbe ascoltarlo?
Stiamo parlando dell’ex ministro dell’Agricoltura, già “giovane turco” e sempre giovane vecchio, che dalla sinistra Pd si convertì al renzismo il 4 dicembre 2016, con lo stesso tempismo di quegl’italiani che il 25 aprile 1945 uscirono di casa in camicia nera. Più che un reggente, un autoreggente. Uno che i giornaloni si sentono in dovere di definire “persona normale”, a scanso di equivoci. Uno che dice “opposizione” e tutti applaudono, fanno sì sì col capino, poi si precipitano davanti alle telecamere a dire: “Se Mattarella chiama, io ci sono”. Per un governo di scopo o del presidente, di larghe intese o di minoranza, di destra o del M5S, di tregua o di balneazione: purché non si rivada a votare, sennò addio poltrona. Renzi invece, parlandone da vivo, annuncia: “Mi dimetto, ma non mollo”. Potrebbe aggiungere “Mangio, ma digiuno”, “Parto, ma resto”, “Ti abbraccio, ma ti prendo a calci”. Tipico di un pugile suonato che si crede ancora il padrone del Pd perché i neoeletti li ha nominati tutti lui e dunque sono suoi per sempre (come se l’altra volta i bersaniani, i lettiani e i prodiani non fossero diventati tutti renziani): vediamo fra un mese quanti gliene restano, dopo il controesodo.
Cioè dopo la cura Mattarella: un misto fra due tecniche dell’arte culinaria a lentissima cottura – la frollatura e la mantecatura – che produce spezzatini talmente inodori e insapori da renderne irriconoscibili gli ingredienti. Intanto, per dirne una, il Corriere informa che ora Marianna Madia è “gentiloniana”: e la Madia, così giovane e così “botticelliana” (così la chiamavano i giornaloni quand’era ministra di Letta e di Renzi), è quello che sino a qualche anno fa era Mastella: un barometro ambulante che segnala dove tira il vento, essendo riuscita nel breve volgere di due legislature a essere veltroniana, franceschiniana, dalemiana, lettiana, bersaniana e renziana. Quando sia saltata sulla scialuppa dell’Ong Gentiloni e chi siano gli altri migranti salvati dal naufragio, non è dato sapere. Ma, almeno mentre scriviamo (le ore 19.39 del 13 marzo), sta lì. Poi si vedrà.
Eppure, se volessero capire perché prendono scoppole ininterrottamente da tre anni, lorsignori non avrebbero che da leggere l’ultimo rapporto non della Terza Internazionale, ma della Banca d’Italia: siamo un Paese sempre più ingiusto e diseguale, col 5% di benestanti che controlla un terzo della ricchezza nazionale, mentre rischiano la povertà un quarto delle famiglie, che salgono a 4 su 10 nel Sud, ma raddoppiano anche al Nord rispetto a 10 anni fa. Che ha fatto il Pd negli ultimi quattro governi? Nulla per migliorare le cose, molto per peggiorarle. Infatti gli esclusi, che un tempo guardavano speranzosi a sinistra, ora votano orgogliosi 5Stelle e persino Lega. Si dirà: tutti i partiti socialdemocratici d’Europa sono in crisi. Vero: hanno contribuito a creare un’Unione europea che somiglia più a un bancomat per ricchi che a una comunità di cittadini e, quando servono soldi per aiutare i più deboli, c’è sempre qualche parametro o qualche trattato che respinge la richiesta. Ma il Pd è socialdemocratico? Mai stato. Né con Veltroni & C., né tantomeno con Renzi, che ha copiato paro paro il programma di B. (infatti è ancora lì che tratta per un “governo di tutti”). Potrebbe diventarlo ora, tanto per cambiare un po’ e vedere l’effetto che fa. Come il Labour britannico che, passata la sbornia blairiana, s’è dato a Corbyn e gode discreta salute. O come i socialisti francesi, spariti dalla scena proprio mentre Mélenchon arrivava a un passo dal ballottaggio. Ma, alla Direzione senza direzione, nessuno ne ha parlato. Eppure è una legge della fisica politica: se la sinistra non fa la sinistra, ci pensa qualcun altro in sua vece. L’aveva capito il Bersani ultimo modello, anche se poi i suoi Liberi e Uguali, complice l’inadeguatezza di Grasso e l’eccessiva zavorra della vecchia “ditta”, sono apparsi poco Liberi e troppo Uguali al passato, e sono stati puniti. Ora, per completare la disfatta, manca solo un Pd che tratta Di Maio e Salvini come fossero la stessa cosa e riprende a inciuciare con B. Magari con Calenda, figlio di Confindustria, di Montezemolo, di Monti e di Renzi, cioè dei quattro naufragi più catastrofici dopo il Titanic. Se è vero che Dio acceca coloro che vuole perdere, qui non sa neppure da chi cominciare: sono già tutti guerci.
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