mercoledì 07/02/2018
Cose turche
di Marco Travaglio
Fortuna che c’è B. a ricordarci chi è B. L’altroieri, con la sparata sui migranti da cacciare, ci ha fatto rammentare quando li invitava a venire (a ogni esodo segue sempre un controesodo). Ieri, avendo giustamente notato che noi italiani siamo di memoria un po’ corta, ha voluto esagerare e ci ha fornito non uno, ma addirittura due indizi.
1) I legali del suo pappone personale (uno dei tanti), Gianpi Tarantini, sono riusciti a bloccare il processo d’appello in corso a Bari per le escort fornite al Cavaliere di Hardcore, con un’eccezione di incostituzionalità della legge Merlin, subito accolta dalla Corte che ha inviato gli atti alla Consulta. L’idea che la legge sulla prostituzione del 20.2.1958, che fra pochi giorni compirà 60 anni, si scopra improvvisamente e insospettatamente illegittima ad appena 12 lustri dall’approvazione e proprio in un processo innescato dal vecchio satiro brianzolo non può che riempire di buonumore la cittadinanza. Se tutto va bene, grazie all’Utilizzatore Finale, riapriranno i bordelli per la gioia di grandi e piccini.
2) L’altroieri l’ometto di Stato era atteso al Tribunale di Reggio Calabria per testimoniare al processo a Scajola per favoreggiamento della latitanza di Matacena. Testimonianza già più volte rinviata per “concomitanti impegni al Tribunale di Tempio Pausania dove sono impegnato come parte offesa” (si presume, dal paesaggio della Costa Smeralda che gli impedisce di fare altri abusi edilizi a Villa Certosa) e per “impegni di campagna elettorale”. Stavolta ha dato buca per un inderogabile incontro col presidente turco Erdogan, “fissato a Roma per le ore 17.30”. Talmente fissato che, lo si è scoperto ieri, non si è mai tenuto. Erdogan ha visto Mattarella, Gentiloni, il Papa, ma B. no. Ma è tutto regolare, assicura l’on. avv. Niccolò Ghedini: “Il presidente aveva chiesto un incontro privato con Erdogan e proprio per questo è rimasto a Roma, ma non è stato possibile realizzarlo”. Forse voleva complimentarsi per lo squisito rispetto dei diritti umani, o consigliarsi su come vincere le elezioni per arresto degli avversari, o manifestargli ammirazione per aver coronato il suo sogno di incarcerare quasi tutti i giudici del Paese. Ma il sultano l’ha lasciato lì in anticamera per ore. Magari ha saputo che B. voleva usarlo per bigiare la solita convocazione in tribunale e non ha voluto prestarsi a queste cose turche tipiche dell’Italia. O s’è ricordato di quando Silvio fece da testimone di nozze a sua figlia e gli è parso strano che chi fa il testimone a un matrimonio in Turchia non riesca a farlo a un processo in Italia.
Comunque la testimonianza è slittata al 26 marzo, dunque B. ha tutto il tempo per inventarsi altri legittimi impedimenti prêt-à-porter. Casomai non gliene venissero in mente, non ha che da pescare nel repertorio dei suoi anni migliori: tipo il 2003, quando il Tribunale di Milano lo processava per corruzione dei giudici e lui, non sapendo di essere innocente, faceva di tutto per sembrare colpevole. Fuggiva dalle udienze con le scuse più ingegnose per far approvare il lodo Schifani blocca-processi prima che arrivasse la sentenza. Il 9 maggio, per dire, accampò una commemorazione di Aldo Moro e un Consiglio dei ministri, dove nessuno lo vide. Il 10 maggio si disse “impegnato in una consultazione con le categorie del commercio e in una conferenza programmatica di FI” (fissata per l’11 ma anticipata apposta al 10). I giudici però non se la bevvero e così il premier improvvisò last minute un doppio fuori programma fra Roma, il Veneto e il Friuli: un lungo incontro con Casini; un summit coi candidati alle Regionali friulane; e un fondamentale vertice a Venezia su “Criminalità e immigrazione clandestina nel mare Adriatico” con i prefetti di Belluno e Verona, note repubbliche marinare. Il 24 maggio eccolo in Lussemburgo, insalutato ospite. Si fece ricevere dal premier Juncker, che non si aspettava di trovarselo fra i piedi, poi nel pomeriggio passeggiò a lungo per la capitale del Granducato con i suoi collaboratori, infine confessò ai giornalisti: “Non scappo dalla giustizia, ma dall’ingiustizia”. Il 6 giugno, improvvisò un viaggio in Medio Oriente commissionatogli personalmente da Bush jr. per riportare la pace fra Israele e palestinesi: “Mi ha chiamato Bush, abbiamo convenuto sull’esigenza di una visita non veloce in Medio Oriente, che prenda tutto il tempo necessario. Fino all’11 giugno non potrò essere in tribunale”. I giudici storsero il naso, allora un commosso Ghedini ne deplorò la grave insensibilità ai destini dell’area: “Il Tribunale ritiene il processo più importante degli interessi della pace in quell’area martoriata, dove ieri è stata uccisa una bambina di tre anni…”.
Poi il 18 giugno 2003 passò il lodo Schifani, seguito da tanti altri, e B. non ebbe più bisogno di scuse. Casomai fosse fuori allenamento, potrebbe chiedere consigli a Cesare Previti, altro grande fantasista del legittimo impedimento. Lui alla Camera non andava quasi mai e, le rare volte, non apriva bocca. Ma, appena partirono i suoi processi, si trasformò in un presenzialista da piaghe da decubito e in un oratore infaticabile su tutti i temi dello scibile umano: dalla fecondazione assistita al riordino delle carriere dei prefetti, dal Kosovo alle quote latte, dal servizio militare femminile alla riforma dei cicli scolastici. Senza trascurare “la minoranza slovena”, “la lingua ladina in Alto Adige”, “l’adeguamento ambientale della centrale termoelettrica di Polesine-Camerini”, “l’impiego delle giacenze di bioetanolo nelle distillerie”, “l’esecuzione dell’inno nazionale prima delle partite del campionato”, “la previsione di un volo diretto Roma-Washington”. Sì, erano meravigliosi. Basta un niente e tornano tutti.
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