domenica 15 ottobre 2017

Rinfresco di memoria



Vi siete scordati come andò? Come ci ritroviamo con queste pezze al sedere? Questo articolo di Silvia Truzzi, ci rinfresca la memoria.


Legislatura fuori legge: strappi, fiducie, trasformisti e canguri
Forzature - Cinque anni vissuti pericolosamente da un Parlamento eletto con una legge incostituzionale e tre governi assai disinvolti

di Silvia Truzzi

L’espressione “golpe al ralenti” è stata coniata da Franco Cordero negli anni d’oro di Berlusconi: la prendiamo a prestito per raccontare l’incredibile storia della legislatura che sta per concludersi, una notte della Repubblica lunga cinque anni in cui il Parlamento è stato umiliato e ridotto a maggiordomo di governi fin troppo disinvolti.
L’alba è la fine del febbraio 2013, quando andiamo al voto (un’era geologica fa: erano ancora vivi Ciampi e Andreotti), non si riesce a formare il governo, e il presidente Napolitano, in scadenza, nomina dieci saggi incaricati di elaborare un progetto di riforme istituzionali (tra cui la fine del bicameralismo perfetto) ed economiche che possano essere un programma di governo per il futuro esecutivo delle larghe intese. Prima ancora che s’insedi il governo di Enrico Letta, il Parlamento si riunisce in seduta comune per l’elezione del nuovo, si fa per dire, inquilino del Colle.
Nel Pd non si trova l’accordo per Prodi (#Romanostaisereno), il partito non vuole nemmeno Stefano Rodotà, proposto dai Cinque Stelle e amatissimo dal popolo di sinistra. Si comincia a parlare con insistenza di un secondo mandato per Napolitano: lui smentisce seccamente i rumors, sussurrati dai retroscenisti da settimane, definendo ridicola la sola ipotesi. Qualche mese prima aveva detto: “La mia è soprattutto una ferma e insuperabile contrarietà che deriva dal profondo convincimento istituzionale che il mandato (già di lunga durata) di Presidente della Repubblica, proprio per il suo carattere di massima garanzia costituzionale, non si presti a un rinnovo comunque motivato. Né tantomeno a una qualche anomala proroga”.
Risultato: il 20 aprile Napolitano viene rieletto – “accetta per senso delle istituzioni”, “quasi costretto” – e con il discorso d’insediamento, in cui sculaccia il Parlamento, dà il via libera alla stagione delle riforme. S’insedia un’altra commissione di saggi, quella dei 35. La fantasia va al potere e s’immagina perfino di manomettere l’articolo 138 della Costituzione, norma architrave e di garanzia della Carta stessa. Non andranno da nessuna parte, intanto Berlusconi viene condannato, decade dal seggio di senatore per la condanna per frode fiscale, il Pdl esce dalla maggioranza.
Il 4 dicembre 2013 accade l’imponderabile: la Consulta dichiara incostituzionale il Porcellum, con cui andiamo a votare dal 2006, perché (non bastasse il nome) mina gravemente i principi di rappresentanza e di libertà del voto. La sentenza 1/2014 consente espressamente alle Camere di continuare a operare, ma non in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie al “principio fondamentale della continuità dello Stato”, richiamando due limiti temporali assai brevi (meno di tre mesi). Dunque il Parlamento è dimezzato nella legittimità del suo mandato. E che succede? Uno pensa: faranno una legge elettorale costituzionale e, ceneri in capo, andremo subito a votare.
Invece no: cambio della guardia a Palazzo Chigi. Renzi ha vinto le primarie del Pd e in tre mesi sfila il governo a Letta, anche se aveva dichiarato che mai, senza legittimazione popolare, sarebbe accaduto. Riformismo spintissimo, con la benedizione del Colle e, soprattutto, l’iniziale accordo di Silvio Berlusconi (Patto del Nazareno). Poco importa se a modificare la legge fondamentale della Repubblica è chiamato un Parlamento menomato. La riforma Boschi, scritta come un decreto Milleproroghe o il libretto di istruzioni di una lavatrice (piena di commi, rinvii e altre supercazzole) modifica 47 articoli su 139 della Carta, abolisce il bicameralismo perfetto ed è attesa secondo premier e ministra “da oltre 70 anni”, cioé da prima che la Costituzione fosse scritta.
La fretta è il filo conduttore della riforma, che sarà approvata grazie a stampelle varie (Denis Verdini da ultimo) in un Parlamento che è il trionfo del trasformismo (il 26% dei parlamentari, ha cambiato posto in Aula, tra Senato e Camera, abbandonando lo schieramento in cui è stato eletto: una media di 10 passaggi al mese, uno ogni tre giorni, dati Openpolis). Per accelerare i lavori, all’inizio di ottobre 2015, il Pd s’inventa al Senato un emendamento “canguro” per far decadere tutti gli altri presentati dalle opposizioni (ma anche dalla minoranza del partito) e impedirne la discussione punto per punto. Oltre a far decadere tutte le altre proposte di modifica all’articolo 1 del ddl Boschi, l’emendamento “canguro” diventa anche il cuore del nuovo articolo 55 della Costituzione che ridefinisce le funzioni dell’ assemblea di Palazzo Madama. L’idea di evitare “inutili discussioni” parlamentari non è nuova: a gennaio 2015 il Senato approva un emendamento firmato dal Pd Stefano Esposito che taglia 35mila proposte di modifica all’Italicum, la nuova legge elettorale scritta (capolavoro!) solo per la Camera (tanto sono sicuri che la riforma passerà con il referendum). È il “supercanguro”.
Qualche settimana più tardi Renzi si presenta alle 2 di notte a Montecitorio dove si discute dell’Italicum a suon di insulti e scazzotate tra i deputati democratici e i colleghi di Sel (due finiranno in infermeria) e dei 5 Stelle. Il premier vuole “mandare un messaggio”, scrivono i giornali: o si votano le riforme o si va a casa. Mai s’era vista una serie tale di forzature. Lo dice in Aula il senatore Pd Walter Tocci: “Mai il governo aveva imposto una revisione costituzionale, mai il relatore era stato costretto a presentare un testo che non condivideva quasi nessuno, mai i senatori erano stati destituiti per motivi di opinione”. Già, è successo anche questo (ai membri dissidenti della commissione Affari istituzionali del Pd). Sia il regolamento della Camera sia quello del Senato prevedono la sostituzione di un membro delle Commissioni facendo riferimento a singole sedute o a singoli disegni di legge. La ratio di queste norme non è eliminare chi la pensa diversamente, ma poter procedere in caso di assenza di un parlamentare o in caso in cui ci siano competenze specifiche di un altro parlamentare. L’Italicum, grazie a un voto di fiducia imposto da Renzi che dilania il partito, diventa legge il 4 maggio 2015 ma la sua entrata in vigore è posticipata di un anno e mezzo (così non si può votare), perché è collegata alla riforma Boschi. Che però viene bocciata dagli italiani il 4 dicembre 2016 con 20 milioni di voti che costringono Renzi a dimettersi.

Un’ulteriore tegola arriva a gennaio di quest’anno, quando la Consulta dichiara incostituzionale anche l’Italicum, contro cui sono partiti ricorsi preventivi: niente da fare, il Parlamento non riesce a fare una legge elettorale legittima. Nei dieci mesi successivi prima “muore” il Tedeschellum, poi con l’ennesimo raid si costringe la Camera ad approvare il Rosatellum bis, di nuovo a suon di fiducia, imposta dall’esecutivo Gentiloni, che all’insediamento aveva giurato di non metter becco nella legge elettorale, perché è materia parlamentare.

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