venerdì 23/06/2017
Mai rubare formaggio
di Marco Travaglio
La giustizia italiana ha appena sgominato un pericoloso manigoldo che aveva addirittura rubato un pezzo di parmigiano in un supermercato di Mondello (Palermo): 1 anno e 4 mesi di reclusione. Galera vera, non finta come per i colletti bianchi, incensurati per definizione (plurirecidivi, ma sempre prescritti): il giudice infatti non gli ha concesso la sospensione condizionale perché ha la fedina penale sporca. E gli è pure andata bene, perché il pm aveva chiesto 2 anni. Malagiustizia? No, tutto regolare. Le pene massime e minime non le fissano i giudici, ma il “legislatore”, cioè il Parlamento, popolato da gente che per i furti ordinari non fa sconti. Anzi, non fa che aumentare le sanzioni per presentarsi dinanzi agli elettori come garante della sicurezza. È sui furti in guanti gialli – la specialità della casa – che il “legislatore” fissa pene sempre più ridicole, quindi niente intercettazioni né manette, prescrizione-lampo e impunità garantita a quelli del “giro”; o pene inesistenti, perché le condotte più sono gravi e più vengono depenalizzate. Un giudice munito di retta coscienza e buona memoria, in grado di ricordare cosa prevedono la Costituzione e la giurisprudenza della Consulta sulla proporzionalità fra pena e gravità del reato, dovrebbe vomitare ogni volta che queste norme infami lo costringono a stangare innocui poveracci e a lasciare a piede libero a norma di legge riccastri e potentastri che, per i danni che fanno, dovrebbero stare all’ergastolo.
Purtroppo sono in continuo aumento i magistrati che non si pongono neppure il problema e danno per scontato che i tribunali e le galere sono roba da sfigati, non da signori. Un tempo, per ottenere una giustizia debole coi forti e forte coi deboli, bisognava almeno corrompere qualche giudice. Oggi si risparmia: fanno tutto da soli, col pilota automatico, e soprattutto gratis. È bastato bombardarli per 25 anni dai palazzi del potere e dai sottostanti giornaloni e tv sul dovere di “tener conto” delle “conseguenze” delle indagini e dei processi su politica ed economia. L’ha ripetuto per nove anni Napolitano, rovinando intere generazioni di neomagistrati, con moniti lanciati fin nelle scuole per giovani toghe sull’esigenza di un’amorevole “collaborazione” fra potere giudiziario, politico ed economico. Ora, provate voi a rubare del formaggio e poi a invitare il giudice a collaborare: immaginate le risate. Se invece un ministro o un top manager inquisito per aver rubato l’equivalente di qualche milione o miliardo di pezzi di parmigiano piagnucola per gli effetti del processo sul governo o l’azienda, funziona alla grande.
Nel caso Consip, per dire, c’era una combriccola che brigava per truccare un appalto da 2,7 miliardi in cambio di mazzette: appena scoperta, uno stuolo di generaloni, ministri e dirigenti pubblici si sono precipitati ad avvertirla di non parlare e non incassare più, visto che nell’allegra brigata c’era pure il padre di Renzi. Immaginate la stessa scena per una rapinuccia da 2,7 milioni: un carabiniere amico avverte il rapinatore che lo stanno pedinando e gli consiglia di far sparire tutto. Li ficcherebbero entrambi in galera e getterebbero la chiave. Invece per la rapina da signori restano tutti al loro posto, santificati in Parlamento: ministro, generaloni, dirigenti pubblici. Tranne uno: il testimone che li ha denunciati. Il governo caccia Luigi Marroni da Consip perché – confessa il deputato Pd Emanuele Fiano – ha confermato le accuse a Lotti, Del Sette, Saltalamacchia e Tiziano Renzi, ergo “conferma di non avere più alcun rapporto di fiducia col governo che l’ha espresso”. E ora, se tutto va bene, cacciano pure i pm di Napoli che hanno scoperto lo scandalo: Celeste Carrano ed Henry Woodcock (sul quale già pende un processo disciplinare del Pg della Cassazione per un’intervista mai rilasciata). Neanche loro godono della fiducia del governo che non li ha espressi: dunque si impapocchiano accuse fumose su altre indagini per avviare al Csm l’iter del trasferimento d’ufficio per “incompatibilità ambientale”. Con quale ambiente? Quello di Napoli o quello del governo?
Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, per la prima volta nella storia, arrivò direttamente dal governo Renzi. E il presidente della commissione-traslochi è Giuseppe Fanfani, amico della famiglia Boschi ed ex legale di banca Etruria (su cui indaga il procuratore di Arezzo, già consulente del governo Renzi). Se si mettono d’impegno, forse riescono a cacciare Woodcock e Carrano prima di nominare il nuovo procuratore di Napoli, sede vacante da appena sei mesi, quindi c’è tempo. Il 26 aprile, in un’intervista al Fatto, il ministro della Giustizia Andrea Orlando fece capire che la banda Renzi voleva una bella ispezione contro i pm di Napoli, alla maniera berlusconiana, ma lui aveva rifiutato. Poi, in un dibattito organizzato dal Foglio, fu molto più preciso: “Mi ha dato fastidio che… miei compagni di partito… mi chiedessero perché non avessi mandato gli ispettori a bloccare le inchieste”. Domanda: chi gliel’ha chiesto? Risposta: “Il vicepresidente della commissione Giustizia (Franco Vazio, ndr) e il vicedirettore dell’Unità (Andrea Romano, ndr)”. È accaduto qualcosa? Niente, a parte il fatto che, indisponibile il ministro, a sistemare i pm di Napoli hanno provveduto il Pg della Cassazione (a cui il governo aveva appena prorogato il pensionamento) e il Csm. Dal che si intuiscono almeno due cose. 1) Perché i ladri, per farla franca, devono rubare molto: se si accontentano di un pezzo di formaggio, sono spacciati. 2) Perché B. ha detto che, in caso di un governo a 5 Stelle, opterebbe per l’espatrio. Che poi, tecnicamente, si chiamerebbe latitanza.
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