mercoledì 24 maggio 2017

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mercoledì 24/05/2017
Stragi e autostragi

di Marco Travaglio

Cosa direste se, dopo la strage di Manchester, qualche pezzo grosso dello Stato, della politica, delle forze dell’ordine e dei servizi segreti britannici si mettesse al lavoro non per scoprire e punire tutti gli esecutori, i complici e i mandanti della mattanza, ma per coprirli facendo sparire le loro carte e quelle degli inquirenti, lasciandoli fuggire pur avendoli sottomano, depistando le indagini con falsi colpevoli, lasciando incustoditi i loro covi a beneficio dei compari, intimidendo o facendo ammazzare i testimoni e magari aprendo una trattativa Stato-Isis per addolcire il trattamento carcerario ai detenuti, smantellare le più importanti leggi antiterrorismo del Paese, screditare, isolare e punire i magistrati che indagano sull’immondo mercimonio? No, perché è esattamente quello che è accaduto in Italia durante e dopo le “auto-stragi” del 1992 a Palermo e del 1993 a Firenze, Milano e Roma. Eppure i rappresentanti di quello stesso Stato che 25 anni fa negoziò con Cosa Nostra sulla pelle di decine di vittime innocenti continuano a commemorarle con orge di retorica e lacrime di coccodrillo. Il massimo dell’autocritica è la solita, trita polemica sulla mancata nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione o della Procura nazionale antimafia, o sulla diffidenza che accompagnò la sua opinabilissima scelta di collaborare col governo Andreotti. Sui mandanti o i complici istituzionali e dunque occulti delle stragi, sugli artefici della trattativa Stato-mafia che le moltiplicò e sui depistaggi per coprire le tracce, silenzio di tomba.
Ieri, in un’intervista al Fatto, il Pg di Palermo Roberto Scarpinato ha messo in fila una serie di fatti documentati e inoppugnabili, unendo poi i puntini di un disegno che dà i brividi a chiunque voglia dargli un’occhiata. Non furono uomini dell’Antistato, ma del cosiddetto Stato, ad avvertire i killer mafiosi dei programmi di Falcone nel terribile weekend dell’Addaura. A rovistare nei file del suo computer al ministero della Giustizia subito dopo la sua morte. A firmare i comunicati della “Falange armata” per rivendicare e depistare ogni attentato. A essere informati in tempo reale della strategia stragista pianificata da alcuni superboss in un casolare di Enna sullo scorcio del 1991, senza far nulla per contrastarla, anzi. A spedire i carabinieri del Ros dal mafioso Vito Ciancimino per avviare una trattativa con Riina e poi con Provenzano piegando lo Stato al ricatto mafioso; a mandare al macello Borsellino, nemico irriducibile di ogni patteggiamento, in via D’Amelio meno di due mesi dopo Capaci.
E furono sempre uomini dello Stato, non dell’Antistato, a inviare un emissario per sorvegliare il caricamento del tritolo sull’autobomba (forse gli “infiltrati” che la moglie del pentito Santino Di Matteo, intercettata, pregò il marito di non nominare mai dopo il rapimento del figlio Giuseppe, poi ucciso e sciolto nell’acido). A trafugare l’agenda rossa del giudice dal teatro ancora fumante dell’eccidio; a confezionare subito dopo un falso colpevole, Scarantino, da dare in pasto ai pm per nascondere i veri colpevoli e i loro complici o mandanti esterni. A non perquisire il covo di Riina subito dopo il suo arresto, lasciando che gli indisturbati picciotti di Provenzano lo ripulissero di ogni carta e traccia. A decidere la revoca del 41-bis per 334 mafiosi detenuti un anno dopo la tormentata approvazione del decreto sul carcere duro.
A lasciarsi sfuggire nel ’93 Bagarella, inscenando un gran casino attorno al suo nascondiglio nel Messinese per farlo scappare, e poi Provenzano a Mezzojuso nel ’96. Ad avvertire Cosa Nostra che il boss confidente che aveva localizzato Provenzano, Luigi Ilardo, custode di preziosi segreti sugli apparati deviati dello Stato, stava per collaborare con la giustizia e mettere a verbale le sue accuse, per farlo eliminare appena in tempo. E ancora – aggiungiamo noi – a svuotare il 41-bis, a chiudere le supercarceri di Pianosa e Asinara, a depotenziare la legge sui pentiti, ad abolire addirittura (per un anno) l’ergastolo per gli stragisti, proprio come Riina aveva chiesto nel “papello”, ad avviare campagne politico-mediatiche contro i pm antimafia (da Caselli e il suo pool protagonista dei processi su mafia e politica a Di Matteo e agli altri magistrati impegnati tuttoggi nel processo sulla trattativa) e contro tutti i più efficaci strumenti di lotta alla mafia: i pentiti, i testimoni di giustizia, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (ideato da Borsellino nell’ordinanza del maxiprocesso-ter), la custodia cautelare e le intercettazioni.

Naturalmente l’agghiacciante denuncia di Scarpinato è caduta nel vuoto, essendo il muro di gomma l’arma migliore usata dal potere contro le verità indicibili. Ora, immaginiamo che opinione si farebbe dell’Italia uno straniero che vi sbarcasse per la prima volta e leggesse i quotidiani e ascoltasse i tg e i dibattiti televisivi di questi giorni, tutti dedicati a quei mascalzoni dei pm e all’obbrobrio delle intercettazioni. Penserebbe: che strano, di solito sono i mafiosi, i killer, i rapinatori, gli scafisti, i trafficanti di droga, armi e carne umana che parlano solo di come sfuggire a quei cornuti dei magistrati e di quegli stronzi degli inquirenti, di come levarseli dai piedi e farla franca, prima di aprire bocca, si guardano intorno, evitano i telefonini e parlano sottovoce per scansare le cimici; invece in Italia tutte queste cose le dicono e le fanno i politici, che negli altri Paesi hanno preoccupazioni diverse, anzi opposte. Si domanderebbe il perché di questo bizzarro fenomeno e come potrà mai il nostro Stato combattere lo stragismo jihadista. E si risponderebbe: vuoi vedere che in Italia governa la criminalità organizzata? Risposta esatta.

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