domenica 8 gennaio 2017

Catastrofisti


In stile Brexit! Boccia, capo di Confindustria, dovrebbe girare con il cappello da asino per almeno un semestre!

domenica 08/01/2017
Altro che disastri, mercati in festa a un mese dal No

di Marco Maroni

Investitori in fuga, crollo di Borsa, caduta del Pil, nuova povertà. Mancavano l’invasione delle cavallette e qualche altra piaga bibilica per completare il quadro dei disastri annunciati in caso di bocciatura della riforma costituzionale al refendum del 4 dicembre scorso. È trascorso un mese dalla vittoria de No e i fatti raccontano un’altra storia. Non solo non si sono avverate le profezie di sventura ma la Borsa, misura della fiducia in un paese è salita del 15 per cento, la migliore d’ Europa nel periodo, segno che a tenere depressi i mercati era anche l’ansia generata dal coro pro-riforma. E diversi altri indicatori sono girati in positivo.

Protagonisti della retorica ansiogena sono stati politici, imprenditori, banche d’affari, e agenzie di rating. Che hanno trovato un disponibile megafono nei principali media. È un po’ la stessa dinamica che s’era vista l’estate scorsa col referendum sulla Brexit, dopo il quale l’economia britannica è entrata in un periodo d’oro. Tanto che l’altro ieri c’è stato un apprezzabile mea culpa del capo economista della Banca d’Inghilterra, Andy Haldane: “Mi arrendo. Abbiamo sbagliato tutto con la Brexit”, ha detto pubblicamente.

A prospettare scenari negativi per l’economia ha cominciato l’estate scorsa Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria. Ma il catastrofismo confindustriale è esploso in tutta la sua virulenza quando, in autunno, a dare spessore alle argomentazioni è arrivato l’ufficio studi dell’associazione. Con queste previsioni: 430 mila nuovi poveri, quattro punti di crescita in meno, 258 mila nuovo disoccupati, a fronte di 319 mila posti in più in caso di Sì. L’effetto del No sarebbe costato lo 0,7% di Pil nel 2017 e l’ 1,2% nel 2018. “Se vince il No addio investimenti, il Paese si fermerebbe”, ha detto a più riprese Boccia ai giornali. Netta quanto inopportuna l’uscita dell’ambasciatore statunitense John Phillips a luglio: “Il No al referendum sulla riforma costituzionale sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia”. A novembre, dal palco della Leopolda, sono arrivate le dichiarazioni del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti: “Credo che con una vittoria del No si creerebbe un’incertezza grave che bloccherebbe gli investimenti per un certo periodo di tempo”. Non si sbilanciava invece sugli effetti del No il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, perché non aveva dubbi: “Vincerà il Sì, ne sono sicuro”.

A sostenere le argomentazioni di politici e imprenditori sono stati un nutrito gruppo di banche d’affari, analisti, agenzie di rating, insomma gli esperti. Per Citigroup, la più grande società di servizi finanziari del mondo: “Il referendum è il più grande rischio nello scenario politico europeo”; per Fitch e Moody’s il rischio politico col No sarebbe aumentato e avrebbe messo a rischio la fiducia degli investitori. Non poteva mancare Davide Serra, finanziere di simpatie renziane: “Se alreferendumvince il Sì ci saranno capitali che diranno: ‘Bene, il processo degli ultimi tre anni continua, quindi proviamo a investire’. Se invece vince il No, i capitali non entrano in Italia”.

Intanto con un capolavoro di astuzia, all’esito del referendum viene legata la sorte del Monte dei Paschi. È la clausola della market condition: l’aumento di capitale privato “sarà lanciato solo se ci sarà un clima positivo” scrivono i vertici nel prospetto, dimenticando di specificare che di investitori disposti a mettere di nuovo soldi nella banca non ce n’è neanche uno.

Se si guarda a come vanno le cose nelle ultime settimane, non sembra proprio che gli investitori siano in fuga. La Borsa ha fatto faville, più 15 per cento in un mese. Esclusa Mps, l’unico problema su cui si è temporeggiato per mesi proprio per rimandarlo a dopo il voto, e il cui titolo è ora sospeso dalla Consob, è andato bene tutto il settore bancario. La prima mega fusione tra ex popolari, Bps e Banco Popolare, nella prima settimana di quotazione ha fatto più 27 per cento in Borsa.

Il colosso Francese del risparmio Amundi ha comprato da Unicredit la società Pioneer e presentando l’affare il suo presidente, Xavier Muscain, ha detto “In Italia vogliamo crescere. È un voto di fiducia nei confronti dell’Italia”. Anche nell’industria le cose non sembrano andare a rotoli come annunciato. La società telefonica Wind si è fusa con Tre Italia comunicando che investirà, 7 miliardi nei prossimi 7 anni in infrastrutture digitali. Amazon ha annunciato un nuovo centro di distribuzione, a Vercelli: 65 milioni di investimenti e 600 posti, entro il 2017. L’Istat e l’istituto internazionale Markit nei giorni scorsi hanno annunciato una crescita del clima di fiducia, dell’attività manifatturiera e degli ordinativi.

Forse servirebbe anche da noi qualche autocritica, come quella del capo economista della Bank of England.

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