martedì 26 aprile 2016

Prove Tecniche IV


Chiarisco: sto saggiando il terreno. Provo a scrivere, in impeto istantaneo. 
Oggi, vuoi il clima, il martedì post 25, la sconfitta a Verona è uscito questo pezzo, di una tristezza unica. 
Sono prove da scribacchino insalubre. 

Prese la mano di lei, in un sfavillante istante, molte volte vissuto quand'era viva, le guardò le esangui dita, toccò l’anulare, freddo ed insensibile. 
Come uno che ritornando nel luogo natio rivive gli attimi della vita ivi trascorsi, arrivando a vedere persone scomparse, udire ilarità perdute, fumiganti amplessi vissuti in nascondigli solo per altri, non per lui che viveva a proprio agio dei sotterfugi pensati all'epoca per possedere donne variegate, le dita dell’amata erano divenute la miccia esplodente atta a distruggere la paratia che il dolore gli aveva eretto a protezione, per ghiacciare fuochi tempestosi ed emotivi generati dall'aver vissuto tanta vita in lei, per aver bevuto nella coppa deliziosa che gli aveva sempre porto, mai doma, mai con ritrosia, mai superficialmente. 
E le distante fredde, artiche, tra le dita, il presagir che d’ora in poi parole mai pronunciate, anche in modo fanciullesco visto che il tempo, al solito, scade anche se tendenzialmente crediamo che ciò mai avverrà, entravano come vino novello in cantina, dentro al suo essere, rovesciando quadri e tappezzerie messe a finzione, palchi teatrali ove molti recitarono prose farsesche, tendenti a divagar dalla realtà tutti coloro che tingendosi capelli e gote, vorrebbero decretar l’infinito ove non è, l’immutabile quando tutto cambia nell’istante successivo alla gestualità professata, il mercimonio del divagar per non assaporar caducità, la dissipazione di ogni amore, risa, effervescenza giovanile. E si fecero udire, nell’assillante rumore messo a guardia del suo ego dalle sinapsi, tanto amate e di cui andava fiero. 

Mai più. 

Così finisce e s’addentra la consapevolezza di un caduco finale. Con queste parole si rese conto che mai più, da lì a poco, l’avrebbe fiorata, vezzeggiata, auscultata, contemplata, posseduta. Mai più, ovvero l’infinito aprente la solenne consapevolezza dell’umanità errante e friabile, di questa storia finita, di questa novella breve, transitoria, subdola. 
Apprese con quella certezza che, vivendo di un’epoca squallida e truffaldina, quale la contemporaneità gli aveva reso, il portone sarebbe stato chiuso, la chiave fusa nei ricordi, il sentiero disperso, la felce bruciata nel gioco effimero dell’esistenza, nel tessuto consunto della vita. Comprese di non essere estraneo alla ruota infingarda e non voluta, non agognata, non decisa, che vuole questa disparità di possibilità, di occasioni, di tempi perduti in nome di creazioni artificiali stordenti, che lo avevano reso insensibile ai benefici di un abbraccio di cuore e corale, anteponendo emozioni fittizie, effimere rotte circolari senza spiegamento di vele, di profumo di mare, di viste mozzafiato tra paesaggi perduti. 
Stava per staccarsi per sempre da lei, aveva una certezza granitica davanti, contando i secondi godeva degli sparuti rimasi, perdendosi nel dolore di non aver mai approfittato di questa voluttà ogniqualvolta nessuno ostacolo era frammezzo, nessun impegno era spiazzante. Passavano lenti, inesorabili, la curva avrebbe rivelato la fine di tutto. Correndo tra sé verificò la bontà di quanto immagazzinato nei tempi felici, verificò che tutto potesse ritornare in lui, che i ricordi potessero riportarlo da lei, che stava sfuggendo, partendo per la dissoluzione che in esteriorità aveva amato e gustato, sotto squallide vesti. 
Mai avrebbe potuto immaginare lo stato di dolore, di inefficacia di tutto quanto poco prima l’affascinava, ammaliandolo ed invaghendolo! Era solo e la mano sulla spalla lo avvertì che quel gesto ripetuto all’infinito, nel salotto, in macchina, a pranzo, nei ristoranti frequentati insieme, nelle corse tra i girasoli, nei musei, nella quiete dinnanzi al mare, nella notte placida e misteriosa, nei pertugi dei pendii tanto amati, nelle anse marine mai solitarie, nei meandri di grotte, di fiabe, di notti, di sonni, di pitosfori a volte detestati, stava per divenire ricordo, unico, senza ritorno. 
Staccò le sue dita, vide la distanza aumentare, sentì una voglia infinita di replicare il contatto, arse innaturalmente dentro un deserto turbolento che l’avvinghiò rendendogli dura l’inspirazione, il deglutire, il pensare, l’immedesimarsi nel distacco. 
Ansimò, curvandosi, intravedendo il buio come mai prima. Sapeva da sempre che il ricordo non riesce, quasi mai, a sostituire il presente, il moto meraviglioso dei sensi, il tatto dell’amore. 
S’allontanò, anche da se stesso. 

Gli parve strano che, nonostante tutto, al di sopra di ogni sensazione, oltre ogni pensiero, gli rimase vivido e tremendamente reale, il toccar di dita, il fruscio del ricordo di lei accanto al suo cuore, come se la Vita avesse capito tutto quanto e, in uno slancio emotivo, partecipasse al suo cercar di vivere. 

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