sabato 8 agosto 2015

Inciviltà


A chi ancora, credendo di vivere in un paese civile, pensa che un giorno potremmo risalire la china, tornare a far la voce grossa e grazie all'enorme patrimonio culturale divenire faro nella notte, lampada di civiltà ed umanità, consiglio di leggere questo reportage di Tommaso Rodano, pubblicato sul Fatto Quotidiano.
Parla di schiavitù. 
Perché in questo nobile paese di vati, navigatori, poeti e Boschi, esiste la schiavitù. 
Viene permesso ad esseri diversamente umani di praticarla, di gestirla, di incentivarla. 
Nel silenzio generale. Nel consenso generalizzato. Nei taciti accordi.
Personalmente dico no alla schiavitù. 
Sono pronto a combatterla, vergognandomi di vivere in questo paese incivile. Schiavista.

"GLI SCHIAVI DELLE FAVELAS ITALIA MUOIONO AL SOLE COME BESTIE"
di Tommaso Rodano

Trentasette gradi. Il sole brucia l’asfalto, la terra rossa del Salento e le sue lunghe file di ulivi. Nardò, provincia di Lecce, è una delle capitali del lavoro nero. Un bacino inesauribile di schiavi contemporanei. L’estate salentina non appartiene solo ai turisti. Le notti sono dei caporali. Escono all’alba, riempiono le loro auto come scatole di sardine e portano i braccianti nei campi, dove raccolgono le angurie e i pomodori che finiscono nei supermercati, nelle industrie di trasformazione e sulle tavole italiane. Nove, dieci, dodici ore di lavoro per una manciata di monete. Tre euro e mezzo per riempire una cassetta da tre quintali.

Yvan e il primo sciopero dei migranti di Nardò

Yvan Sagnet cammina sul confine della vecchia masseria Boncuri. È nato a Douala, in Camerun, trent’anni fa. Ama l’Italia dai mondiali del ‘90, quelli in cui i “leoni indomabili” di Roger Milla e Oman Biyik fecero impazzire di gioia tutto il continente. Ha attraversato il mare per studiare a Torino, quando ha perso la borsa di studio si è trovato a raccogliere pomodori a Nardò. Era il 2011. Yvan, africano colto e cresciuto in una famiglia benestante, non sopportava le ingiustizie colossali, spudorate nei confronti dei lavoratori dei campi. La masseria Boncuri, quell’anno, era un suq di tende e baracche. Si trasformò nel quartier generale di un inedito sciopero dei braccianti. Yvan era il portavoce della protesta. Giornate esaltanti: gli schiavi alzavano la testa, parlavano di diritti, guardavano negli occhi gli sfruttatori. Dopo pochi mesi fu introdotto il “reato di caporalato” e l’inchiesta “Sabr” portò all’arresto di 16 persone: 9 padroni dei campi, italiani, e 7 caporali africani. I processi sono in corso.

Dopo un anno è tornato tutto come prima. Oggi la macchina del lavoro nero è florida e forte come non mai. La masseria Boncuri ha chiuso, è deserta. “Non c’è più nulla – sussurra Sagnet – Hanno cancellato il simbolo di quel movimento. Si vede che avevano paura che qualcosa cambiasse davvero. La filiera agricola si arricchisce sul nostro sangue, questa economia è fondata sulla schiavitù. Allo Stato sta bene così: nei processi contro gli sfruttatori, il comune di Nardò non si è costituito parte civile. Per il sindaco danneggiamo l’immagine della città”.

 La vittoria degli schiavisti

Rispetto al 2011 la situazione è persino peggiorata. I braccianti si sono spostati di cento metri. Nel campo autorizzato del comune ci sono appena 17 tende blu e sei bagni chimici. In ogni tenda dormono quattro persone. Fuori due ragazzi africani si riposano sotto l’ombra delle palme, su un materasso lacero. Abraham viene da Dakar, Senegal. È in Italia dal 1995. Lavorava a Lecco, all’Electro Adda: “Mi hanno mandato via quando hanno spostato il lavoro in Polonia. Ora seguo le colture e mi muovo con le stagioni. L’estate si fa il pomodoro a Nardò. Tra un paio di settimane mi sposto verso Foggia. Che ci faccio qui a farmi sfruttare? Dammi 2 mila euro e torno subito a casa”.

Il grosso dell’esercito industriale di riserva di Nardò dorme tra gli ulivi, in un grande campo lungo la strada. In una ex falegnameria - e nei suoi dintorni - vivono in 150: soprattutto tunisini e sudanesi; senegalesi, burkinabè, gambiani. La struttura – sotto costante minaccia di sfratto – sembra sul punto di venire giù. I muri squarciati, la terrazza col balcone rotto. I materassi sono gettati ovunque.

Qui Yvan da solo non potrebbe entrare. I caporali lo conoscono bene. Ha subito aggressioni e minacce di morte. Sagnet dopo la protesta non è andato via. Lavora con la Flai Cgil. Qui è quasi un reietto: i braccianti sono dalla parte dei loro sfruttatori. Sembra un paradosso, ma è naturale: sono i caporali che decidono chi lavora e chi no. Controllano tutto. Gestiscono le cucine e i “ristoranti” del campo. Sfruttano un gruppo di prostitute nigeriane. Da qui, martedì mattina, è partita la salma di Mohamed, il bracciante ammazzato dalla fatica e dal caldo nelle campagne di Nardò il 21 luglio. Il suo corpo è tornato in Sudan, dopo una battaglia diplomatica e una colletta per pagare le spese (a cui hanno contribuito sindacato e Regione). Quando sua moglie è venuta a vedere ha avuto un brivido: “Neanche gli animali vengono trattati così. Qui non c’è posto per l’umanità.”

Le donne invisibili di Francavilla

Saliamo la costa, cambiamo provincia. Le braccianti del brindisino sono soprattutto donne, quasi tutte italiane. A Francavilla, di notte, scivolano via come fantasmi. Si riuniscono in silenzio sotto la luce dei lampioni. I primi camioncini passano a prenderle verso le due e mezza. In mezzo c’è un donnone che si sbraccia e smista la manodopera tra i pullman. È la “fattora”, fa parte pure lei della squadra del caporale. Il viaggio può durare anche due ore: bisogna raggiungere i campi del barese e del metapontino. Il caporale trattiene soldi per il trasporto, per l’acqua, per un panino. Per qualsiasi cosa: dopo 10 ore nelle vigne, da una busta paga fasulla di 50 euro al giorno, le schiave ne portano a casa meno di 30. Ecco i “contratti” con cui i proprietari dei campi si mettono la coscienza a posto.

Trenta euro è il prezzo di mercato della vita di Paola, 49 anni, morta il 13 luglio in un’azienda agricola di Andria, qualche giorno prima di Mohamed a Nardò. Per quella stessa cifra si fa sfruttare un esercito di 12 mila donne solo nella provincia di Brindisi – spiega Michela Almiento, segretaria confederale della Cgil nel capoluogo. Le braccianti brindisine non vogliono parlare. L’unica che accetta di farlo si chiama Piera. “Massimo 35 euro per sette, otto o nove ore di fatica. Ne vale la pena? No. Ma se non lavoro io, lo fa un’altra e altre scelte non ne ho. Mia figlia? È per lei che lo faccio, ma non riesco a vederla quasi mai. Mio marito non può chiedermi di smettere, sa che abbiamo bisogno di quei soldi”.



Il lager-dormitorio di Brindisi

Anche a Brindisi c’è un ghetto “nero”. Era un macello, ora è un dormitorio di proprietà del Comune, affidato a una cooperativa. Ci potrebbero stare in 80, sono circa 200. Dormono ammassati ovunque. Per terra, su stuoie improvvisate di cartone o di stracci. Sui materassi laceri, gettati in ogni pertugio nei cubicoli, separati da file di panni e vestiti. Le pareti e il pavimento erano bianche, sono annerite, lerce. I bagni alla turca non sono più di una dozzina, le docce ancora meno. Il percorso che porta alle latrine è segnalato da una lunga scia gialla sulle piastrelle. Duecento persone compresse in una struttura abbandonata sulla strada provinciale per San Vito, non lontana dal centro di Brindisi. Un altro serbatoio di braccia da sfruttare quasi gratis per le fortune degli imprenditori locali.

 Il grande ghetto di Rignano Garganico

Yvan ci porta ancora a nord, verso Foggia. La città dell’oro rosso, prima in Italia per produzione di pomodoro: in questi campi ogni anno se ne raccolgono circa 800 mila tonnellate. A meno di dieci chilometri c’è il ghetto di Rignano Garganico. Chi ci vive lo chiama le grand ghetto. D’estate, nei giorni più intensi della raccolta, ci vivono tra le 1.500 e le 2.000 persone: una città rimossa da tutte le cartine geografiche. Sono tutti braccianti africani, da Mali, Gambia, Senegal e Burkina Faso.

Il ghetto sorge su tre diverse proprietà terriere: per “costruirci” sopra le baracche si paga un affitto stagionale. Non è comparso all’improvviso: è qui da oltre 15 anni e ogni estate diventa più grande. Il confine è segnato da una discarica a cielo aperto, si supera una vecchia masseria cadente occupata dai caporali, poi iniziano le file di baracche. Decine e decine di case di cartone, coperte da teli di plastica. Il vento alza la polvere e la distribuisce ovunque. I bagni sono buche nel terreno, separate a in un metro quadro da pareti improvvisate.

Nel ghetto di Rignano c’è tutto. Auto, moto e biciclette, un “corso” principale pieno di persone al passeggio. C’è un mercatino della merce usata; ristoranti, pub, pure una sala da ballo (ma Yvan spiega che il confine tra la discoteca e il bordello è labile). E poi c’è “Radio Ghetto”, una trasmissione radiofonica curata dai braccianti e da un gruppo di volontari italiani che va in onda sulle frequenze 97.0: si parla di sfruttamento, aspirazioni frustrate e sogni ancora vivi.

I “quartieri” sono divisi a seconda delle nazionalità degli abitanti. Passeggiamo a Bamako, capitale del Mali. Moussa infila il coltello nel ventre di un cadavere di maiale macellato, appeso a un gancio. Più avanti, una bimba inciampa nel canale di scolo. Il polpaccio affonda nel liquido nero, un sandalo scompare nella melma. Un ragazzo si ferma ad aiutarla, “pesca” la scarpetta con un bastone e gliela restituisce. Si chiama Abdul, vive a Todi, è a Rignano di passaggio per trovare un gruppo di amici. “Qui il 90 per cento delle persone – dice – non sa né leggere né scrivere. Non abbiamo gli strumenti per difenderci. E soprattutto non abbiamo nulla da perdere”. La dignità? “La dignità è per chi ha il pane in bocca e i soldi in tasca”.

Nella totale autogestione del grand ghetto, paradossalmente, l’unico contributo che arriva dall’esterno sono i cassoni di acqua potabile portati ogni giorno dai camion della Regione Puglia. Lo Stato conosce questo posto. Semplicemente lo ignora.

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